RAPPORTO PADRE-FIGLIO

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Dottoressa Erica Brasini

Psicologa - Psicoterapeuta

RAPPORTO PADRE-FIGLIO

Alla nascita del bambino, per via dell’accudimento e delle cure di cui il bebè necessita da parte della madre, viene considerato di maggiore importanza il rapporto madre-figlio e il padre erroneamente viene messo in secondo piano, quando invece anch’egli come la mamma è una figura indispensabile per la corretta crescita del bambino, perché il padre è il primo modello maschile di riferimento! Un padre fin dai primi giorni di vita del bimbo, non deve essere solo presente fisicamente ma deve avere i suoi spazi relazionali con il figlio per poter instaurare un rapporto sano e stabile, in modo tale che il bambino potrà diventare un adulto sereno. Occorre anche considerare però che fra padre e figlio si istaura fin da subito conflittualità con sentimenti contrastanti; il figlio potrebbe voler assomigliare a lui o essere totalmente diverso da lui, fino a trovare poi un equilibrio in età adulta. E’ necessario seguire il proprio figlio nelle varie tappe evolutive.

Ma quali sono le fasi di sviluppo e come un padre può approcciarsi al meglio con il figlio?

La prima fase va dalla nascita ai 3 anni e malgrado l’attaccamento esclusivo madre-bebè, il padre comunque deve da subito assumere un ruolo importante e attivo nella crescita del figlio in quanto il “rapporto” si costruisce fin dalla tenera età. Il bambino fin dalla nascita entra in relazione con il papà, attraverso la sagoma, gli odori, il modo in cui lo tocca; avverte il padre ancora prima di averne una concreta percezione visiva. La comunicazione primaria avviene attraverso il modo in cui lo abbraccia e lo culla, attraverso i gesti, da come lo cambia, da come gioca con lui, da come gli parla, etc, sono tutti gesti e comportamenti corporei che se fatti con amore e delicatezza costituiscono una comunicazione positiva, perché il padre esprime emozioni positive verso il figlio. In questa fase un altro dei compiti del padre è quello di favorire la serenità della madre quando dovrà, come è il naturale processo evolutivo, distaccarsi dal figlio e parallelamente favorire l’emancipazione di quest’ultimo in maniera graduale.

La fase successiva è quella prescolastica che va dai 3 ai 6 anni, il padre in questa fase oltre ad essere sempre positivamente presente per il figlio, deve avere un ruolo ludico e giocare in modo costruttivo e stimolante con lui. Detto questo, volevo citare una ricerca condotta fra i Paesi Europei da cui emerge che i padri italiani siano all’ultimo posto a livello di quantità di tempo dedicato al gioco con i figli, con una media di soli 15 minuti al giorno trascorsi con loro, preferendo al ritorno dal lavoro sedersi davanti alla tv, giocare con videogiochi o navigare sui social network, questa purtroppo è una triste realtà che riscontro molto spesso. Inoltre sempre in questa fase il padre deve iniziare ad essere normativo, impartendo regole ed educazione. Se questo rapporto viene vissuto positivamente il bambino riesce a distaccarsi dalla madre con la quale fino a quel momento ha vissuto in modo simbiotico senza particolari traumi e impara a relazionarsi in modo sereno ed equilibrato con il mondo esterno, perché il padre inizierà a dare un senso di sicurezza materiale ed emotiva, fungerà da scudo nella sperimentazione del mondo da parte del bambino, mondo da scoprire fra curiosità e paure. Se queste dinamiche vengono a mancare a causa di un padre assente o debole, il bambino potrebbe crescere vulnerabile e spaesato davanti al mondo minaccioso.

La terza tappa va dai 7 ai 10 anni, in questa fase il papà aiuta il figlio a distinguere il bene e il male, trasmettendo i criteri di valutazione; la prima lezione che riguarda la moralità si forma non attraverso le parole ma tramite gli esempi che papà riporta, quindi occorre essere molto attenti a come ci si comporta. Un esempio di tutti i giorni: se in casa si sente il padre usare turpiloqui cioè “parolacce” il figlio si sentirà legittimato ad usare gli stessi termini. Con il suo esempio il padre avrà dato il tacito consenso al figlio di comportarsi nello stesso modo e l’unica maniera di tornare indietro è che il papà inverta la sua condotta, dando esempi diversi. Il padre deve essere una figura presente, quando serve anche autorevole ma mai autoritaria, per lasciare al bambino autonomia di scelta; non deve essere un amicone ma nemmeno un padre padrone. Inoltre molto importante parlare ed ascoltare il proprio figlio, in modo da creare le fondamenta per un dialogo anche nel periodo dell’adolescenza.

La fase dai 10 ai 18 anni prevedono l’età puberale e adolescenziale, di solito la fase più difficile sia per il genitore che per il ragazzo. In questa fase continua la parte normativa del padre, continua oltre che con gli esempi in modo verbale anche in modo più tangibile a far capire al figlio cosa è giusto e cosa sbagliato, a fargli capire le regole di vita e i valori. Dovrà premiare il figlio quando si comporta bene così da incentivarlo ai comportamenti corretti e quando sbaglia lo può sì punire ma mai giudicare. Il padre deve cercare di instaurare un buon rapporto dove ascoltare il figlio senza essere né giudicante né svalutante, trasmettendo fiducia e sicurezza per poter ottenere un’apertura di dialogo, dato che in questa fase di vita i figli tendono ad interiorizzare e non esprimere, in modo tale da poter parlare insieme di tutte le situazioni, delle preoccupazioni, dei problemi, dei sentimenti che il ragazzo prova. Il figlio abituato a parlare con il padre, troverà in lui, genitore dello stesso sesso, un confidente, qualcuno con cui confrontarsi e la conflittualità che scaturisce in questa fase di vita, servirà alla ricerca del sé e allo sviluppo della propria autonomia, non più solo nelle vesti di figlio ma anche di persona. Quando il figlio avrà trovato il proprio sé, le situazioni di conflitto tra padre e figlio tenderanno a scemare, raggiungendo una comunicazione matura da “uomo a uomo”.

Dopo i 18 anni il rapporto padre figlio è oramai stabile e sviluppato nel bene o anche nel male, a seconda di come si “è seminato”.

Un padre deve evitare alcuni comportamenti che ledono il rapporto e la sana crescita del figlio, quali:

Umiliare e sottolineare fallimenti e aspetti negativi del figlio, senza mai riconoscere le sue potenzialità presenti. In questo modo provoca un danno allo sviluppo dell’autostima, creando una profonda svalutazione personale nel bambino poi ragazzo, creando in lui la sensazione di non essere mai all’altezza della situazione o capace di affrontare le sfide della vita.

Non dovrà essere esageratamente autoritario, certo occorre come precedentemente detto che sia normativo e dia delle regole, ma l’eccessiva rigidità e disciplina, accompagnate da punizioni esagerate porta il figlio ad allontanarsi da lui.

Il padre non deve mostrare e proiettare al figlio le sue ansie e le sue insicurezze, perché questo rischia di essere tradotto dal bambino nella paura costante di tutto, provocando timori e insicurezze profonde e difficilmente rimovibili.

Non si deve essere padre chioccia, esageratamente attenti e protettivi e voler occuparsi di tutto ciò che riguarda il figlio, prevenire o risolvere qualsiasi problema del bambino, perché così facendo si impediscono il processo di sviluppo dell’autonomia del figlio, rendendolo debole rispetto alla vita che dovrà affrontare.

Evitare di essere un padre incoerente e imprevedibile, cioè prima permettere poi proibire la stessa azione o viceversa, in questo modo non si garantisce al figlio una sensazione di sicurezza in quanto non saprà mai cosa aspettarsi e tenderà a difendersi e fuggire.

Infine un padre non dovrà mai e poi mai criticare la madre davanti al bambino, perché il figlio imparerà nel crescere a non rispettare non solo la mamma ma il sesso femminile in generale, con gravi ripercussioni sul suo senso di famiglia.

In conclusione è bene dire che non esistono ne padri ma nemmeno madri perfette ma tuttavia è possibile sempre fare del proprio meglio attraverso l’impegno, il senso di responsabilità, il buon senso, la lungimiranza  e tanto tanto amore.

 

 

Il sostegno alla genitorialità

Il sostegno alla genitorialità è un percorso mirato a sostenere e orientare i genitori nel rapporto genitori-figli, quando: si sentono in difficoltà rispetto ad alcuni atteggiamenti e comportamenti dei propri figli, durante alcune delicate fasi dello sviluppo dei figli, nel loro quotidiano lavoro di educatori, ma anche di fronte a situazioni di devianza o di particolare problematicità dell’adolescente. In tali contesti, lo psicoterapeuta con il bagaglio tecnico che gli sono propri, diviene un utile strumento per sostenere e accompagnare il genitore e/o il figlio durante la crescita.

 

La mediazione familiare si rivolge alle coppie in fase di separazione, soprattutto quando sono presenti dei figli. Lo psicoterapeuta ha il compito di aiutare a rendere la coppia capace di condividere responsabilmente la co-genitorialità, la rende capace di gestire la crisi per poter così trovare soluzioni reciprocamente soddisfacenti per sé e per i loro figli, per far si che essi subiscano il meno possibile la difficoltà che la situazione porta.

 

La terapia familiare ha come obiettivo finale la soluzione dei problemi o dei conflitti esistenti nel nucleo familiare, favorire la ricerca di nuove e più funzionali modalità di comunicazione e ascolto fra i componenti della famiglia e facilitare l’esprimersi dei bisogni emotivi fra i componenti.

Tecniche di rilassamento ed ipnosi

Le tecniche di rilassamento sono diverse e si adottano allo scopo di regolare e imparare a gestire gli stati ansiosi e/o lo stress. Le tecniche principali che adotto sono:

Il Training autogeno di Schultz: training mentale e fisico che gestisce lo stato di tensione attraverso immagini mentali, sensazioni di calore auto indotte, etc.

Il Rilassamento Muscolare Progressivo di Jacobson: training muscolare che si focalizza sulla tensione percepita al livello dei muscoli

Le tecniche respiratorie o diaframmatiche

Le tecniche basate su mindfulness e meditazione

Meditazione “classica”

Rilassamento immaginativo

E altro…

 

L’ipnosi Ericksoniana viene adottata come tecnica di rilassamento e come ipnoterapia, importante strumento terapeutico, utilizzato quando la persona ha necessità di lavorare su se stessa in modo approfondito, per arriva a parti di sé che in stato di coscienza sono precluse. Con l’ipnoterapia si riescono ad aggirare le resistenze consce per arrivare nel modo più “dolce” possibile, al riconoscimento e all’elaborazione della problematica, senza barriere che impediscono di farlo.

TERAPIA DI COPPIA

La terapia di coppia aiuta la coppia a gestire i conflitti. Il compito dello psicoterapeuta è quello di fare acquisire alla coppia funzionali modalità di interazione, ottenendo una maggiore capacità di ascolto e comunicazione con il partner. Durante gli incontri lo psicoterapeuta non dà giudizi e non è di parte ma ha il compito di mediare, di stimolare entrambi i componenti della coppia per aiutarli a prendere realmente coscienza l’uno dell’altro, dei loro reciproci pensieri e sentimenti, eliminando le eventuali difficoltà di comunicazione e i “giochi psicologici” che inconsapevolmente mettono in atto creando barriere e automatismi che agiscono negativamente nel dialogo e nelle azioni e di conseguenza nella relazione. Qualsiasi coppia ha momenti di tensioni, più o meno forti ma superabili se si sanno gestire.

Ipnosi

PSICOLOGIA E LE FIGURE CORRELATE:

PSICOLOGO, PSICOTERAPEUTA, PSICOANALISTA, PSICHIATRA

 

In questo articolo farò un brevissimo cenno alla psicologia, dalla sua nascita al suo sviluppo nel tempo, e cercherò di chiarire le differenze esistenti fra le figure professionali che ruotano attorno alla psicologia.

Il termine Psicologia deriva da “Psiche” che in greco antico significa “anima” cioè vita, respiro, soffio vitale e sede dei sentimenti; ha origine in Grecia grazie a filosofi come Aristotele e Platone che per primi si posero degli interrogativi sul funzionamento della mente. Con il tempo il termine psiche fu diviso da anima e le due parole assunsero due significati diversi; con psiche si intende la parte mentale dell’uomo mentre con anima si indica la sua parte spirituale. Quella che tutti noi oggi conosciamo come psicologia, incuriosisce l’uomo da sempre e ha richiamato nei secoli l’attenzione e lo studio di filosofi, medici, biologi, fisici. Fra il 1850 ed il 1870 diversi studiosi si occuparono dello studio delle emozioni, delle sensazioni, delle attività intellettive, applicarono allo studio della mente le metodologie che già applicavano alle scienze naturali; fecero questo senza rendersi conto che stavano avvicinando la psicologia ad una scienza. Riuscì in questo il filosofo-fisiologo, tedesco W. Wundt che nel 1879 grazie agli esperimenti che condusse nei suoi laboratori di Lipsia, dimostrò attraverso risultati che si sono dimostrati concretamente ripetibili (la ripetibilità dei risultati è indispensabile perché una qualsiasi area possa essere considerata scientifica), che la psicologia è una scienza, la scienza che studia il comportamento umano. Di seguito elenco solo alcuni degli ambiti di studio e di approfondimento della psicologia, essi sono: la memoria, l’intelligenza, l’apprendimento, la comunicazione, le emozioni, l’affettività, la motivazione, la frustrazione, l’aggressività, il conflitto, l’attenzione ed ancora la personalità, le relazioni, etc.. La disciplina della psicologia è rivolta alla persona, al gruppo o alla comunità. Ad oggi la definitiva definizione di psicologia è: la scienza che studia la psiche nei processi psicologici  sia inconsci che consci, attraverso i quali una persona costruisce le proprie risposte comportamentali.

La psicologia come scienza è recente, nasce appunto poco più di un secolo fa ma da allora gli studi sono proseguiti ininterrottamente in varie parti del mondo, con ricercatori e psichiatri più o meno conosciuti; gli studi si svilupparono ed sono proseguiti in varie correnti di pensiero e orientamenti, ma la cosa che comunque accomuna tutti è il senso della psicologia che studia il comportamento umano e che cerca di comprendere e interpretare i processi mentali, affettivi e relazionali che lo determinano con lo scopo di promuovere il miglioramento della qualità della vita.

 

Ora vorrei fare chiarezza sulle varie competenze delle figure professionali “autorizzate” che lavorano in ambito psicologico, dato che da sempre riscontro dalle domande fatte dai miei pazienti che c’è molta confusione fra: psicologo, psicoterapeuta, psicanalista, psichiatra.

 

Per diventare psicologo prima si ottiene la laurea in psicologia e successivamente ad un tirocinio formativo di un anno, si sostiene l’esame di Stato per abilitarsi all’esercizio della professione di psicologo previa iscrizione all’Albo Professionale degli Psicologi della Regione. Un dottore in psicologia che non ha effettuato il regolare tirocinio e non ha superato le prove previste per l’esame di stato, non è di fatto uno psicologo e non può esercitare la professione di psicologo. L’operato dello psicologo è regolato dal codice deontologico che ne definisce limiti e doveri e consiste nel somministrare test e fare diagnosi, promuovere il benessere della persona, dando al paziente maggiore capacità e consapevolezza per comprendere sé stesso e gli altri attraverso colloqui psicologici; può inoltre offrire consulenza e supporto psicologico a tutti coloro che presentino un disagio o un problema che non presenti i sintomi di un disturbo psicopatologico, perché lo psicologo NON può trattare disturbi psicologici o psichiatrici, questo lo può fare solo uno psicoterapeuta. In ogni caso lo psicologo non essendo un medico non può prescrivere farmaci.

E’ psicoterapeuta, il professionista che dopo essersi laureato in psicologia e aver percorso tutto l’iter per diventare psicologo, segue un percorso almeno quadriennale, presso una scuola di specializzazione universitaria o comunque riconosciuta dal MIUR per acquisire una specifica formazione post-laurea (possono seguire la specializzazione post laurea in psicoterapia anche i medici). Quello di “psicoterapeuta” è dunque un titolo aggiuntivo a quello di psicologo.

Lo psicoterapeuta può fare tutto ciò che fa lo psicologo, in più ha competenze e conoscenze maggiori otre a strumenti psicoterapici che consentono di trattare, i disturbi psicopatologici, mirando a ridurre la sofferenza del paziente agendo sui meccanismi psichici e comportamentali sottostanti al problema. Questa specializzazione prevede anche una formazione pratica continuativa e la supervisione del terapeuta da parte di colleghi psicoterapeuti. Nell’ambito della psicoterapia vi sono molti approcci, che prevedono teorie e metodi diversi tra loro, dalla psicoanalisi, alla terapia sistemico-familiare, alla terapia cognitivo comportamentale, etc.

Lo psicanalista è uno psicoterapeuta che esercita la propria pratica clinica basandosi su un preciso approccio quello psicoanalitico. La psicoanalisi affonda le sue radici nella teoria Freudiana e si distingue enormemente dalla psicoterapia per le regole del setting, dove per setting si intende sia l’arredo dello studio, sia l’orientamento terapeutico, frequenza e numero di sedute, l’approccio e la relazione che il terapeuta instaura con il paziente. Senza stare ad elencare nel dettaglio tutte le differenze, le più importanti che si evidenziano in psicoanalisi rispetto alla psicoterapia sono: in psicoanalisi la durata del percorso è nettamente più lunga e di norma necessita di un maggior numero di sedute settimanali rispetto alla psicoterapia. Inoltre c’è molta differenza fra la modalità di approccio psicoterapico e relazione fra terapeuta e paziente; in psicanalisi il rapporto tra il professionista ed il paziente è rigorosamente formale, la comunicazione è quasi esclusivamente unidirezionale da parte del paziente che viene stimolato alla conversazione dallo psicanalista che raramente interviene nella seduta; altra differenza sostanziale è che nella psicoanalisi non vengono adottati/insegnati strumenti pratici.

Lo psichiatra è un laureato in medicina e chirurgia con specializzazione post laurea in psichiatria. La psichiatria è la branca specialistica della medicina che si occupa della diagnosi, della cura e della riabilitazione dei disturbi mentali e dei comportamenti patologici. Valuta la sintomatologia e il decorso clinico e propone una cura che può indirizzarsi verso un intervento farmacologico e/o psicoterapeutico. La legge italiana consente agli psichiatri di avere il titolo di psicoterapeuta su semplice richiesta all’Ordine professionale ma questo di fatto non garantisce, come invece è per gli psicoterapeuti che lo psichiatra-psicoterapeuta abbia frequentato una scuola di specializzazione quadriennale in psicoterapia, in pratica è libero di esercitare come psicoterapeuta senza aver effettuato un percorso formativo, ma questo si rimanda a coscienza sua. Lo psichiatra dato che è un medico può prescrivere farmaci generici e/o psicofarmaci e richiedere e valutare esami clinici.

A questo punto dell’articolo una domanda sorge spontanea…a chi ci si deve rivolgere in caso di un problema? Si contatterà lo psicologo se il problema si manifesta con un disagio che non presenta una sintomatologia invalidante e può bastare la consulenza. Si dovrà contattare uno psicoterapeuta, qualora invece il disagio psicologico si presenti con sintomi, più o meno invalidanti, o si presenti un disturbo psichico, o un disturbo psicopatologico. Lo psichiatra sarà contattato quando un disturbo psichico influisce negativamente sul funzionamento della persona a livello sociale e lavorativo, presentando una sintomatologia pesante e il paziente non riesce a lavorare su se stesso,  necessitando di un trattamento farmacologico, che sarà necessario sia per alleviare il grado di sofferenza che per ristabilire le condizioni necessarie e sufficienti per il lavoro psicoterapeutico. Psichiatra e psicoterapeuta lavorano su facce diverse della stessa medaglia, ciascuno con le proprie competenze. In un’ottica di interrelazione mente-corpo, l’ottimale è che lo psichiatra e lo psicoterapeuta lavorino in stretta collaborazione, uno per ristabilire l’equilibrio fisiologico della persona, l’altro per ristabilire l’equilibrio psicologico.

 

PSICOTERAPIA INDIVIDUALE

La psicoterapia individuale si adotta per risolvere la problematica e/o la sofferenza della persona che se trascurata va poi a compromettere la qualità di vita. Il mio metodo di lavoro prende in esame sia la persona nella propria dimensione individuale, sia l’ambiente che la circonda cioè il contesto sociale e le relazioni con altre persone in diversi contesti di vita (famigliare, affettivo, lavorativo, sociale), questo è molto importante per avere un più ampio livello di osservazione, sul quale impostare al meglio il percorso terapeutico e raggiungere il benessere della persona. Personalmente adotto più metodi terapeutici, prevalentemente l’orientamento Sistemico Relazionale ma anche il Cognitivo-Comportamentale, la PNL, l’Ipnositerapia e altro, a seconda del caso e nel rispetto dell’unicità di ogni persona.

La consulenza  si adotta per risolvere situazioni di difficoltà che generalmente hanno una natura momentanea e transitoria ma che se non elaborate correttamente, rischiano di consolidarsi, generando stati di blocco e malessere, compromettendo il benessere personale e la qualità della vita. Si accompagna la persona in passaggi particolarmente delicati, aiutandola ad orientarsi in vista di scelte importanti.

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